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Gita sul Taishan (Monte Tai)

Ritratto di Patrizia Clemente
Inviato da Patrizia Clemente il Mer, 22/07/2015 - 17:43
Gita sul Taishan (Monte Tai)

L’11 dicembre parto da Pechino, da sola, alla volta di Jinan, la capitale della provincia dello Shandong. Dopo una notte tranquilla in treno, tra i cinesi enormemente interessati alla mia nazionalità, ai miei studi e a tutti i fatti miei (con annessi e connessi), con finale scambio di bigliettini ed indirizzi, tra la soddisfazione di tutti, arrivo a Jinan dove mi aspetta Paola, italiana di Belluno. Dopo una veloce colazione con una non meglio identificata frittata, partiamo in autobus alla volta di Tai’an, la cittadina ridente (?) ai piedi del Taishan. A Tai’an cerchiamo subito alla stazione un autobus che arrivi alla metà del Taishan, per poi proseguire e goderci “il suggestivo” panorama e pagare il giusto prezzo per l’allungamento della nostra vita: scalare il monte Tai, è considerato in Cina auspicio di lunga vita. In questa grande nazione però, fare progetti e programmi è assolutamente inutile: c’è sempre qualcosa che accade all’ultimo momento e che ti fa cambiare tutti i piani. Ciò che ha fatto cambiare i nostri è stato il non trovare alcun mezzo di trasporto che ci portasse “a cavallo” sul Taishan.

Io, Paola e una signora cinese che si era accodata, cominciamo la “santa scalata”. Paola all’improvviso tira fuori la fiaschetta con l’alcool che aveva comprato a Jinan; era talmente forte e disgustoso da farlo assomigliare allo spirito che noi usiamo per disinfettare il sedere, quando ci facciamo le punture. Lei, con molta serietà, mi spiega che in montagna, bere mentre si scala, è un’abitudine ben radicata. Mi affido fiduciosa alle sue parole: Paola è una che la deve sapere lunga sulle montagne e sul freddo. Scalando scalando, sorseggiamo il grappino e in verità il freddo si attenua, fino a scomparire del tutto, per lasciare posto solo ad un caldo “torrenziale”. La signora ci guarda inorridita e non cede alle lusinghe degli inviti ad unirsi a noi per bere. Stiamo diffondendo una fama ignobile sulle ragazze italiane, perfino sul monte Taishan. Io e Paola, oramai bevitrici incallite, decidiamo di comprare, al successivo posto di ristoro, un’altra bottiglia di grappa, per non rischiare di rimanerne senza, e un pacchetto di arachidi tostate per attutire i colpi dell’alcool.

Ubriache fradicie e con le fiaschette in mano, arriviamo finalmente, a metà del monte dove, stanche morte, decidiamo di affidarci alle funivie cinesi per arrivare fino alla vetta. Non connettiamo più! Paola, dopo aver comprato il biglietto, si rifiuta di salire sull’aggeggio infernale, punta i piedi per terra e comincia a raccontarmi della frequenza con cui si verificano gli incidenti sulle funivie , anche in Italia. Mi rivela che il padre è il gestore di una funivia sulle montagne bellunesi e che, nonostante sia una persona estremamente scrupolosa nelle revisioni periodiche dei cavi, incidenti gravi si erano verificati più di una volta. Le assicuro che se lei non vuole, non la costringerò a salire, perciò andiamo a tentare la restituzione del biglietto in cambio dei soldi. Ci dicono che è possibile, solo che Paola ha un ripensamento e decide di informarsi sulla frequenza degli incidenti. Le assicurano che in 10 anni sono morte solo 20 persone! “Ahhh”, urla Paola, “allora è caduta!?” “ Sì”, continuano loro, “ma è da molti anni che non ne cadono!” “ Peggio, peggio” incalza Paola.

Quando sono già rassegnata alla scalata totale del monte, all’improvviso, la mia compagna di viaggio cambia idea e, con un balzo, salta sulla seggiovia, avendo cura però, di farmi la lagna per i sei minuti della traversata, chiedendomi continuamente opinioni sulla possibilità di una morte in tale, orrendo modo. Alla fine le giuro che non moriremo e ne sono sicura perché me lo sento. A queste mie parole, eccoci già arrivate e ci guardiamo intorno con un’aria soddisfatta. La signora si defila, mentre noi ci chiediamo quali siano le motivazioni che spingono una signora di una certa età, in tali condizioni atmosferiche (sotto zero) e in circostanze veramente difficili, a scalare un monte impervio. Mentre i nasi ci colano formando ghiaccioli, decidiamo di passare la notte lì per goderci, l’indomani, la famosa alba sul Taishan.

Arriviamo all’unico albergo sulla sommità del monte, chiediamo una stanza e, per una ripida scaletta, ci accompagnano in una stanza simil-prigione o cella di clausura. Ci catapultiamo stanche sui letti, sicure che di lì a poco sentiremo quel tepore che si produce entrando in una stanza protetta da solide mura, dal freddo gelido dell’esterno. Pochi secondi sono bastati per farci capire che la temperatura della stanza è esattamente identica a quella esterna e la prova è la presenza del ghiaccio sul pavimento. Chiamiamo l’addetto e chiediamo un mezzo di riscaldamento, tipo braciere. Niente, non c’è, non esiste questa invenzione della tecnologia occidentale in Cina, specie sul Taishan. Ci guardiamo in faccia per un secondo e decidiamo che bisogna andare via assolutamente, il più presto possibile; sicuramente le nostre deboli membra non reggerebbero alla gelata della notte.

Con le facce stralunate dall’alcool, ci catapultiamo nella “hall”, l’anticamera di un pollaio, e pretendiamo la restituzione dei soldi, facendo presente che ce ne andiamo solo per la nostra incolumità, non perché la stanza non sia di nostro gradimento. Dopo un battibecco che dura più o meno 20 minuti, tra risate nostre e ferme insistenze dei gestori, mentre ancora siamo sotto i fumi dell’alcool, Paola si impossessa delle chiavi di tutte le stanze dell’albergo, legate ad un bastoncino di legno. Probabilmente all’inizio non ha alcuna belligerante intenzione se non quella di riprodurre un suono divertente nel bordello generale. Ma poi, la testardaggine dei padroni dell’albergo la indispettisce, e, come un fulmine, con le chiavi in mano, si avvicina pericolosamente a un muretto oltre il quale c’è un precipizio. Scuotendo nervosamente le chiavi, minaccia di scaraventarle nel burrone se non le vengono immediatamente restituiti i soldi.

Il tempo di un secondo, dopo un movimento del braccio dal basso verso l’alto, e le chiavi planano placidamente in chissà quale anfratto misterioso. Subito dopo, Paola sembra avere messo le ali ai piedi e la vedo correre giù per la discesa che porta a valle mentre, magicamente, ricompare la signora della scalata, (non è che questa porta iella ed è lei la causa di tutte le nostre sventure?), mentre i proprietari dell’albergo si attaccano alla mia giacca reclamando i diritti calpestati. Con uno scossone mi libero dalla presa e raggiungo Paola, che scende pericolosamente i gradini con la grappa in mano. Fuggiamo verso la funicolare, senza naturalmente aver visto ancora nulla del monte Taishan e della fatidica alba, che poi erano le ragioni del nostro viaggio fin quassù. Adesso pensiamo solo ad andarcene al più presto, per evitare i cinesi imbufaliti: io, Paola e la signora. Alla funivia i problemi non sono finiti. Hanno già fatto l’ultima corsa e si rifiutano, ovviamente, di farne un’altra fuori orario.

Così Paola, con la saggezza dell’ubriaco, entra nella biglietteria e si siede aspettando che qualcosa cambi e che qualcuno si decida a fare un’altra corsa. Per una buona mezz’ora niente si muove, finché categoricamente ci viene detto che dobbiamo sloggiare e farcela a piedi per le scale fino a valle. Insomma, oramai è già scuro, tre anime scendono le scale del Taishan, una al centro, con in mano una piccola torcia dalla luce fievolissima e con due persone appese alle braccia; alla sinistra la signora, che è anziana e ha bisogno di una mano; alla destra Paola, che è ubriaca e che continua a bere. E chi delle tre ruzzola per le scale per ben due volte? Eccomi, io, che mi procuro varie ecchimosi, mentre le due bisognose appese alle mie braccia arrivano illese e in piedi. Alla fine ci ritroviamo a Tai’an e passiamo la notte in un albergo decente. Il giorno dopo, sul tardi ripartiamo alla volta di Qufu, la città natale di Confucio. Ma questa è un’altra storia.

Quella riportata è una delle tante avventure-disavventure vissute in Cina, dove ho trascorso un anno della mia vita, l’anno forse più importante, come vincitrice di una borsa di studio. Un anno intenso, doloroso, catartico, sconvolgente, in seguito al quale è profondamente cambiato il mio approccio alla vita, alle persone, alle situazioni. Un’esperienza dalla quale si esce rafforzati o distrutti; la forza è stato il regalo più bello di questa incredibile avventura. Un anno di lettere, di racconti, di emozioni affidati a penna e carta. In Cina, la fatuità delle relazioni e delle cose che circondano la nostra esistenza mi è apparsa in tutta la sua drammaticità. Nessuna altra occasione poteva essermi tanto utile, quanto quella di aver vissuto da sola, lontana ed essere riuscita a fare a meno di tutto. Senza nulla intorno, in Cina ho trovato me stessa.

Patrizia Clemente