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Bianchi-e-Nero

Ritratto di CoachC
Inviato da CoachC il Lun, 29/09/2014 - 22:46
Bianchi e Nero

Ad occhi aperti, nel buio, mentre le immagini scorrevano nervose. Cliccando con il mouse, per poi rivedere tutto - due, tre, 10 volte. Lasciando che le pupille catturassero suggestioni, partorire idee, ipotesi, strategie, immerso lui stesso nel vortice di un irrefrenabile cannibalismo concettuale. Imprigionando con i denti aguzzi, concetti, sensazioni, frammenti. Ogni immagine riposta pazientemente nel contenitore di un febbrile gioco di scatole cinesi.
La luce dello smartphone lo distolse dallo studio video - era un whatsapp, in inglese, <>. Non era stato George ad affibbiargli quel nomignolo, Spoon. Erano anni che tutti lo chiamavano così, “cucchiaio”. E forse non solo per il modo famelico in cui divorava quantità industriali di tiramisù. Non rispose.
Fare l’assistente allenatore di una squadra di pallacanestro somiglia molto al ruolo di investigatore privato. Come Sam Spade, come Philip Marlowe. Significa scrutare negli altrui meccanismi, raccogliere ogni informazione sugli avversari, e così pure gli umori di coloro che ti lavorano affianco. Analizzare, organizzare le conoscenze, infine presentare l’insieme di informazioni come un corpo vivo, mobile e mutevole. Come hardware e software di un organismo che si chiama squadra. La propria, quella che si ha il compito di gestire, e quella altrui. Un delicato gioco di rappresentazione, lo studio maniacale di immagini e statistiche. Tutto in una modalità perfettamente sovrapponibile a quella di un cacciatore di anime o di androidi, con l’identità della formula operativa, di singoli e squadra, come obiettivo.
L’aria non era buona. <>. Anche stavolta Spoon non rispose, quelle parole non erano una sorpresa per lui, piuttosto la conferma di quanto letto prima. <<… They simply hate me>>.
Non era una questione di gerarchia, chi fosse meglio o chi peggio. Solo insofferenza, o forse, la non accettazione della rottura di un equilibrio. Come una vecchia pubblicità, in cui lui si vergognava di preferire l’acqua frizzante, se a lei piaceva liscia - e non perché fosse migliore l’acqua liscia o superiore quella frizzante. Era il puro e semplice contrasto di gusti il problema - il conformismo: “perché un’acqua frizzante non può essere una liscia”. Paura di uscire dalle proprie abitudini, razzismo.
George non era all’allenamento, <> - Spoon, rumorosamente, taceva. In un corpo malato, la trasmissione delle informazioni moltiplica il male. Scegliere di tacere non è necessariamente resa o poco coraggio. Può avere il medesimo valore di un microscopio od ogni altro strumento di indagine. Il silenzio neutralizza un senso, l’udito, e proprio per questo, espande la profondità degli altri - annulla ogni segnale di disturbo. Ma questo avviene sempre, non solo come tratto semiotico.
Il silenzio può essere una terapia. A patto che sia consapevole, che sia finalizzato alla migliore gestione del presente. Alla fine George arrivò, ciondolante e silenzioso. Anche lui silenzioso. <>. Perdere o vincere era solo una parte del problema, lo straniamento non contribuiva di certo a migliorare le prestazioni, ma era evidente che fosse l’ego al centro di tutto. Perché Spoon sapeva che la palla non circolava, che a qualcuno mancava terribilmente la scena. Erano le immagini a mostrarlo.
Ma non tutti avevano l’occhio per vedere. E il silenzio, da terapia, può divenire malattia - l’interminabile sequenza di cose non dette fece collassare il tutto e lasciò le immagini mute. Mute e cieche.
Uscendo dall’ufficio, Spoon si sentì più solo. In strada era ormai scesa la notte, e le insegne al neon lasciavano sul selciato lunghe, discontinue scie. Ognuna delle pozzanghere a distorcerne il riflesso. Il silenzio rotto ora dai rumori di fondo. Ma questa è un’altra storia.

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